L’inchiesta Frontiere EuropeeCentri di comando in stile militare, banche dati con milioni di persone, sorveglianza di massa con droni telecomandati, programmi di ricerca e appalti nazionali da miliardi di euro. Lontano dai riflettori, i governi dell'UE stanno portando avanti un importante piano a lungo termine per un massiccio utilizzo della tecnologia nel controllo delle frontiere europee.
Questo articolo è stato inizialmente pubblicato in esclusiva su Il Corriere della Sera il 10 dicembre 2016.
È stato pubblicato sul sito di Investigate Europe a luglio 2024.
Metti sicurezza qua e là e tutti sono d’accordo. Il tema della sicurezza è oggi l’unico intorno a cui i paesi europei ritrovano l’unità perduta. L’abbiamo visto al recente summit di Bratislava, il 16 settembre scorso. I capi di governo hanno promesso solennemente di «prendere tutte le misure necessarie per aiutare gli Stati ad assicurare la sicurezza interna e la lotta al terrorismo». E cosi’ quel giorno si è evitato di litigare sulle quote dei migranti, sulla Brexit, sull’austerità. Ormai tutto si confonde, tutto si amalgama: sicurezza-immigrazione-terrorismo. In una corsa agli investimenti per trasformare il nostro continente in una fortezza pronta a difendersi dal nemico. Banche dati, agenzie europee, satelliti spia e droni. Ma nel controllo delle frontiere la sicurezza e la militarizzazione che le va ormai a braccetto, servono? Servono a gestire meglio i flussi migratori, a ridurre l’immigrazione clandestina, i traffici di esseri umani? Abbiamo cercato di rispondere a queste domande mettendoci insieme, nove giornalisti provenienti da otto paesi europei.
Siamo andati a incontrare guardie costiere, poliziotti, pubblici ministeri, comandanti di navi, imprenditori, commissari europei.
Da una frontiera all’altra, da sud, a est, a ovest. Siamo scesi nei caveau delle banche dati dove si conservano le informazioni di milioni di persone, abbiamo seguito operazioni militari, il salvataggio di migranti, la costruzione di cancelli digitali per gli aeroporti, i porti, le stazioni. Durante questo viaggio abbiamo scoperto che negli ultimi dieci anni è stato creato un «sistema» europeo di controllo delle frontiere mastodontico, costoso e non interconnesso, sconosciuto persino dai nostri politici, per non parlare dei cittadini europei. Si lanciano grandi investimenti che vanno certo a profitto di grosse imprese europee, prontissime a suggerire ai nostri politici cosa fare, ma i problemi restano sempre li’, il numero di arrivi e morti aumenta, i trafficanti sono sempre più ricchi e il «grande occhio» che si sta costruendo sulla nostra testa, per controllare tutto e tutti, ci rende persino più vulnerabili. Certo, non più sicuri.
Il «Sistema»
C’è Frontex a Varsavia, ormai ribattezzata «Guardia Costiera e di Frontiera Europea» (EBCG). Dall’undicesimo piano del grattacielo «UFO» con i suoi schermi lampeggianti controlla le frontiere dell’area Schengen, grazie a un budget schizzato da 6,2 milioni l’anno, al suo nascere, dodici anni fa (2004), a 239 milioni oggi e presto 322, quando 1.000 nuove guardie saranno assunte per andare in soccorso di un paese in difficoltà. Da est a ovest, ci spostiamo di 3.400 chilometri e arriviamo al Cais do Sodré, sulla banchina del vecchio porto di Lisbona. Qui c’è l’Emsa, l’agenzia per il controllo marittimo. Finora era una piccola struttura nata dopo il naufragio della petroliera Erika per rassicurare l’opinione pubblica sul fatto che l’Europa avrebbe controllato meglio il suo mare. Oggi questo piccolo ufficio si vede assegnare un ruolo chiave nel pattugliamento delle nostre coste con un ingente dispositivo di droni telecomandati che presto voleranno dal Portogallo verso la Grecia o l’Italia alla ricerca di barconi e sospetti trafficanti di migranti. Ma non è finita qui.
Abbiamo contato otto agenzie che si occupano di controllo delle frontiere: oltre a Frontex e Emsa, c’è l’agenzia per il controllo della pesca a Vigo, in Spagna, incaricata da Frontex di seguire con un sofisticato sistema satellitare lo spostamento delle imbarcazioni. Sempre in Spagna, a Madrid, c’è Sat-Cen che fornisce immagini satellitari anche dei nostri mari a Emsa, che a sua volta le rimanda a Varsavia (Frontex) che li rinvia ai paesi che già le hanno ricevute tramite Emsa. Per i satelliti c’è anche l’agenzia spaziale europea (Ase), a Parigi, che oltre a occuparsi dello spazio, gestisce alcuni progetti di sorveglianza delle frontiere. A Parigi c’è persino un Centro studi europei per la sicurezza, poi a Bruxelles l’agenzia europa per la difesa (Aed) che abbiamo messo nel conto, perché la difesa entra ormai a testa alta tra le priorità europee e sempre di più si fa un «doppio uso» di attrezzature militari per scopi civili. E poi passiamo ai dati: a Tallinn, in Estonia, c’è l’agenzia EU-Lisa che coordina la raccolta di tre banche dati importanti, sui visti, i migranti e i richiedenti asilo e sui sospetti criminali. Ma le casseforti con tutti i dati non stanno in Estonia, sono nascoste in un centro super protetto a Strasburgo e un back-up è tenuto a Saint Johann, nel tirolo austriaco. In cinque anni (2015-2020) sono stati spesi per questo sistema di agenzie 6 miliardi di euro con soldi europei e altrettanti dagli stati, per mettere in piedi sistemi di vigilanza e raccolta dei dati. Ogni Stato ha avuto la sua parte con un’agenzia, il suo fortino di funzionari e informazioni riservate.
Un drone ci controlla
Queste agenzie gestiscono spesso anche progetti di ricerca o sistemi di sicurezza. Come quello appena vinto dall’aviazione portoghese, la prima tranche di 67 milioni di euro è stata consegnata per fornire droni a Emsa nelle operazioni di monitoraggio delle coste (è solo un caso, speriamo, che l’organismo che gestirà i droni appaltando fatture milionarie anche a piccole, sconosciute, società di droni, sia in Portogallo, come l’Emsa). Abbiamo incontrato il direttore del centro operativo di Emsa, l’olandese Leendert Bal, ancora sorpreso dal nuovo ruolo di Emsa: dal suo piccolo centro operativo a Lisbona, con 4 impiegati, Emsa gestirà un uso civile dei droni, per la prima volta in Europa.

Białystok, Polonia, 18.11.2016. Una guardia di frontiera polacca lancia un drone FlyEye UAVAdam Tuchlinski
«Delle squadre mobili partiranno dal Portogallo per pilotare a distanza questi velivoli in Italia, in Grecia, dovunque ce ne sarà bisogno», spiega Leendert Bal. «I droni sono piuttosto sicuri, non c’è nessuno a bordo, se qualcosa va storto si perde solo il materiale, non vite umane. E poi un drone può seguire una barca sospetta, mentre un satellite gira con la terra, dopo un po’ perde il segnale». Ci sono pero’ almeno due obiezioni. Un drone cosi’ pesa circa 600-800 chili, per poter portare con sé il carburante necessario per restare in volo 8-10 ore non stop. Il suo volo e l’equipe che lo guida a distanza costano circa 12.000 dollariall’ora. Ma una volta identificata un’imbarcazione piena di migranti, oltre ad allertare le operazioni di soccorso, a che serve? “A niente” - dice un diplomatico italiano che ha sperimentato l’uso di droni durante la prima onda migratoria dalla Libia nel 2013. «Se dall’altra parte del mare non c’è un governo « amico » che si riprende la barca, un drone può fare poco». Eppure la Commissione europa sta lanciando tantissimi progetti con i droni per la sorveglianza delle frontiere. Da Sunny a Closeye, a Raid, tanti paesi stanno sperimentando i droni per il controllo delle frontiere. Leonardo (ex Finmeccanica) l’ha fatto con il progetto Closeye.Smart borders, frontiere intelligenti
Leggi il titolo e ti lasci trasportare: un sistema veloce, intelligente perché digitale, efficace. Quando arriveranno le «frontiere intelligenti» il rischio di attentati diminuirà. Poi scorri la proposta di regolamento in discussione in questi giorni al Parlamento europeo e non capisci. La Commissione europea propone d’installare in tutti gli aeroporti, porti e stazioni dell’area Schengen dei sistemi informatici per raccogliere 4 impronte digitali e un’immagine facciale per ogni cittadino non europeo che entra o esce dall’Europa con un visto di 90 giorni. Sostituirà il vecchio tampone sul passaporto. Ma a che serve questa rivoluzione nei controlli d’identità ? «A tenere una statistica su quante persone «rimangono oltre i 90 giorni consentiti dal visto», si legge nel testo. Senza neanche sapere dove si trova la persona. Abbiamo chiesto al Commissario all’Immigrazione, Dimitris Avramopoulos, a cosa serviranno le «smart borders» a parte creare delle statistiche. «Le statistiche sono importanti, perché gli Stati possono capire meglio dove stanno le minacce», ha risposto il Commissario greco.Gli smart borders costeranno 500 milioni di euro al contribuente europeo, ma uno studio appena pubblicato da un gruppo di esperti di alto livello (King’s College a Londra, Université Libre de Bruxelles, Leiden Lawa School, Centre d’Etude sur les conflits), dice che queste cifre sono irrealistiche, costerà almeno il doppio. Gli interrogativi sono parecchi. Primo, sull’uso dei dati. Questi verranno conservati per cinque anni dall’agenzia EU-LISA di Tallinn, che già gestisce tre banche dati : il sistema d’informazione Schengen (SIS II) per i sospetti di reati; il VIS, per i visti e Eurodac che conserva le impronte digitali e la foto dei richiedenti asilo e dei migranti irregolari. A queste si sta aggiungendo la quarta banca dati sui passeggeri aerei (PNR). C’era bisogno di crearne una quinta per sapere chi non rispetta un visto d’ingresso ? L’eurodeputato Carlos Coelho ci ricorda che gli americani al tempo delle Torri Gemelle avevano tutte le informazioni, ma non le hanno sapute utilizzare, gli esperti ci dicono che già usiamo poco e male le banche date esistenti. In un rapporto richiesto dalla Commissione europea quest’anno, si legge che per quanto riguarda il SIS II, quello più utile alle forze di polizia, «solo cinque paesi alimentano il 53% dei dati disponibili», il resto dei 26 paesi dell’area Schengen non fornisce i dati. E il SIS II è già costato 500 milioni di euro. Ma, almeno passando da un sistema manuale ad uno digitale guadagniamo in una maggiore sicurezza? Qui restano i maggiori dubbi. Abbiamo incontrato due guardie di frontiera in due paesi diversi e un esperto di dati biometrici. Tutti hanno espresso il loro scetticismo verso le frontiere “intelligenti”. All’aeroporto di Francoforte, un poliziotto con 20 anni di carriera ha spiegato che «un sistema digitale ti dirà da dove viene la persona e chi è, ma non ti potrà dire se la settimana prima questa stessa persona è stata in Irak o in Giordania o in Siria, perché questi paesi non hanno lo stesso sistema digitale». E anche se lo avessero, dovrebbero decidere di condividerlo con gli europei, ancora un’altra storia. Invece il vecchio sistema del tampone sul passaporto ti mostra tutti gli spostamenti del viaggiatore. «Pensare che i dati biometrici aumentino la nostra sicurezza, è un mito», ha aggiunto, sempre in Germania, l’esperto di dati biometrici Alexander Nouak. «Le immagini facciali possono sbagliarsi, il volto delle persone cambia di continuo. La macchina può scovare meglio chi ha un passaporto falso, ma è tutto qui». A Lisbona, l’ispettore Marco Do Carmo, dell’Ufficio Immigrazione, aggiunge : «Le macchine ci possono aiutare ad andare più velocemente, ma non potranno mai sostituire l’uomo. Nel nostro lavoro quello che conta è il «profiling», studiare il comportamento di un passeggero, se risponde in modo nervoso a una domanda, se ha premura, tutto può servire. Una macchina tutto questo non lo vede». 
Frontex, 'Situation Room', qui arrivano tutte le informazioni della piattaforma EurosurAdam Tuchlinski
Eurosur registra incidenti, già avvenuti
Entri in una stanza blindata, sei circondato da schermi che si illuminano con lucine rosse e verdi. Ognuno di loro è un evento, un incidente, una barca con i migranti, un peschereccio sospetto, l’aeroporto dove è stato intercettato un clandestino. Sembra di essere alla Nasa, c’è silenzio davanti a questi schermi imponenti. Ma qui non si decide niente, si prende nota di quello che succede alle nostre frontiere e si trasferisce l’informazione ai vari centri di coordinamento nazionale, nei 26 paesi dell’area Schengen, che a loro volta inseriscono i loro dati e tutti condividono questa «gestione delle frontiere esterne». È EUROSUR, una piattaforma digitale, nata nel 2013 per scambiare informazioni sensibili tra stati Schengen. Nel sito di Frontex si legge: «Lo scopo di Eurosur è aiutare gli stati membri aumentando la loro capacità di reazione nel combattere il crimine transfrontaliero, l’immigrazione irregolare e salvando vite umane». Ma tutto questo, a nostra grande sorpresa, andando a visitare i centri Eurosur di Grecia, Portogallo, Italia e Germania, non l’abbiamo trovato. Piuttosto l’imbarazzo di funzionari diligenti a inserire dati, su eventi che sono già avvenuti, certo non occupati a salvare vite umane. E poi Eurosur non registra i dati personali delle persone, solo gli incidenti. Ancora statistiche. In Italia siamo andati a cercare Eurosur fuori Roma, di fronte a Cinecittà, in un bel palazzo del Ministero dell’Interno. Qui dovrebbero lavorare 27 funzionari della Polizia, Carabinieri, Guardia di Finanza, Guardia costiera e Marina militare. Ma quando siamo arrivati, il centro era chiuso per lavori. Impossibile vedere le famose lucine rosse e verdi degli incidenti. Intanto però il budget che l’Italia vi consacra è ben presente: 60 milioni di euro (su sette anni), più 44 milioni per «lo scambio delle informazioni», anche questi soldi europei dati all’Italia per gestire le frontiere. In Portogallo non va meglio. Il Maggiore João Eufrázio inserisce i dati degli incidenti. Le immagini satellitari provengono da Emsa, l’agenzia marittima che si trova solo a due chilometri dal suo ufficio, ma questi dati, secondo il sistema Eurosur, vanno prima a Varsavia e poi ritornano indietro. Il maggiore ammette che «l’ultima volta che è stata avvistata una barca di migranti è stato nel 2007». Quindi i 30 milioni di euro che vanno al Centro Eurosur del Portogallo, più 20 dal bilancio nazionale, servono solo a registrare le 10 tonnellate di hashish che arrivano ogni anno dal Nord Africa.

Barcone di migranti con uno pronto a telefonare per chiedere soccorso in marePal Erik Teigen, Siem Pilot
Italia sola nell’emergenza
Di ritorno in Italia a pochi chilometri da Eurosur, ci siamo fermati in un altro centro, questo sempre aperto, il «Centro di soccorso marittimo della Guardia Costiera», il solo responsabile per legge (secondo la Convenzione di Amburgo del 1979) di gestire le operazioni di Ricerca e Soccorso dei migranti in mare. Il Comandante Marini (tra l’altro nessuno lì conosceva Eurosur), spiega come funzionano i soccorsi in mare: i trafficanti danno un telefono satellitare Thuraya a chi guida la barca con già segnato il numero della Guardia Costiera italiana. Il Centro operativo a Roma riceve la telefonata disperata di chi sta affondando e parte l’emergenza. S’individua la postazione della barca in difficoltà, sempre di più vicino alla Libia, in acque internazionali e poi la Guardia Costiera chiede d’intervenire a chiunque si trovi nei paraggi: pescherecci, Ong, Frontex, attraverso la sua operazione militare Triton, le navi di Eunavfor-Sophia. Certo non a Eurosur che non è un centro operativo. I militari per combattere i traffici dei migranti
Il 18 maggio del 2015 è stata lanciata la missione EUNAVFOR MED, ribattezzata “Operazione Sofia”, per il nome di una bambina nata a bordo della nave San Giorgio durante un soccorso. L’Europa è presente e protegge i suoi cittadini con il meglio delle sue forze militari, questo il messaggio lanciato dai capi di governo riuniti a Bruxelles. Otto navi da guerra, una portaerei, tre fregate, quattro elicotteri, mezzi provenienti da 25 paesi europei, si spostano nelle acque internazionali tra la Libia e l’Italia per «distruggere il traffico dei migranti, azzerare la flotta dei barconi della morte e prendere gli scafisti». Costo della missione: 18 milioni dall’Ue e circa 200 dagli stati europei (l’Italia mette 69 milioni all’anno). Risultato? I militari si sono messi a soccorrere i disperati che arrivano dalla Libia, sempre di più, con barche sempre più fatiscenti che affondano dopo solo 12-15 miglia dalla costa libica, i trafficanti hanno capito che basta arrivare nelle acque internazionali per farsi soccorrere. In un anno l’Operazione Sofia ha comunque salvato 30 mila vite umane e preso 99 scafisti.“Ho bisogno d’interpreti e carabinieri arabi, non di militari in mezzo al mare”
Ma chi sono gli scafisti presi dalle navi da guerra in mezzo al mare? «Sono pesci piccoli, non fanno parte dell’organizzazione criminale», ha raccontato a Investigate-Europe il Procuratore anti-Mafia Salvatore Vella, incontrato nella Procura di Agrigento, competente per le indagini sui traffici di esseri umani in arrivo dalla Libia. «Gli scafisti sono pescatori che guadagnano in media 200 dollari all’anno a cui vengono offerti 3.000 dollari per un solo viaggio di 6-7 ore – dice Vella – oppure, sempre più spesso, sono migranti a cui viene offerto un biglietto gratuito, non hanno mai visto il mare. Il giorno prima gli viene spiegato come condurre un barcone di 20 metri con 700 persone a bordo. Questi sono gli scafisti che vengono arrestati in mezzo al mare». Il business dei traffici è cambiato dall’ottobre 2013, all’indomani del terribile incidente vicino a Lampedusa, in cui morirono 366 persone. Lì si decide di andare a prendere i migranti prima che affondino, spostando la linea dei soccorsi verso la Libia. «Il business dei traffici si è adeguato con dei viaggi «low cost», i trafficanti hanno capito che potevano mettere gommoni e barche «a perdere», fatiscenti, piene di buchi, da usare per un solo viaggio, il tempo di uscire dalle acque libiche e chiamare la Guardia Costiera italiana». Si sente solo, il giudice di frontiera della piccola Procura di Provincia di fronte a traffici miliardari (ogni viaggio fa incassare circa 700 mila euro)? «Ho bisogno d’interpreti che possano infiltrarsi in queste reti criminali. Per ora sono costretto ad assumere le ragazze nigeriane di un bar. Come posso fidarmi? Ci vorrebbero dei bandi per carabinieri o poliziotti di lingua araba che ci aiutino anche a scoprire le reti di riciclaggio di questi criminali in Europa». Dunque, l’esperienza della lotta alla mafia aiuta? «Non proprio – ammette sconsolato il procuratore Vella – perché il boss lo posso andare a prendere a casa sua, nel nostro territorio. In Libia, non abbiamo nessun contatto con le autorità. Peggio, loro sono tranquilli, perché una volta che la barca è partita, hanno già incassato – e tutto in contanti – non gliene importa niente se il viaggio andrà a buon fine o finirà in una tragedia».Chi scrive l’agenda: i politici o l’industria?
Abbiamo domandato al Commissario all’Immigrazione Dimitris Avramopoulos perché si moltiplicano le banche dati, le operazioni militari, la spesa della ricerca su droni e sensori che possano registrare qualunque movimento. E il greco ha risposto: «Perché questa è una domanda dei cittadini europei, ci chiedono più sicurezza e tutti questi progetti in Europa hanno solo questo scopo». Allora abbiamo cercato di capire come sia stata costruita quest’agenda europea negli ultimi dieci anni. Il nostro viaggio è terminato a Bruxelles, capitale della politica e degli affari. Qui le 4-5 grandi società europee nel campo della difesa e della sicurezza, Airbus, Safran, Leonardo (ex-Finmeccanica), Thales, hanno i loro uomini e le loro lobby di rappresentanza. Come in qualunque altro settore. Il bottino è il budget della ricerca sulla sicurezza salito da 65 milioni dieci anni fa a 1,7 miliardi nell’ultimo programma Horizon 2020. E con la promessa della Commissione di finanziare adesso con miliardi pubblici anche la ricerca sulla difesa, finora un tabu’ a livello europeo.EOS, L’organizzazione per la sicurezza in Europa, è il tempio della lobby in questo campo. Il suo scopo è «indirizzare le politiche europee nella sicurezza». Di fatto le politiche EOS le scrive. All’indomani del terribile incidente di Lampedusa, nell’ottobre 2013 in cui morirono 366 persone, EOS scrive una lettera riservata all’allora presidente Barroso dicendosi «pronta a fornire le risposte adeguate». Con una lista delle cose da fare: 1) creare una nuova guardia di frontiera (nata nell’ottobre del 2016) ; 2) mettere in piedi la piattaforma di scambio d’informazioni Eurosur (nata nel 2013); 3) aumentare la capacità di sorveglianza con i droni (Bando di gara Emsa, settembre 2016) e 4) facilitare lo scambio di dati nella sorveglianza marittima (progetto EUCISE, lanciato con il programma di fondi 2007-2013, di cui Finmeccanica è ora il coordinatore). La lobby si esercita attraverso i comitati di esperti dove la Commissione invita tanti rappresentanti dell’industria e alcuni accademici. Assente la società civile, chi sta sul terreno dell’immigrazione tutti i giorni. I prescelti si siedono intorno a un tavolo - per esempio il «Pasag», il «gruppo di consulenza per la protezione e la sicurezza» - e dettano le politiche da lanciare. «Ci riuniamo tre volte all’anno», racconta Fabio Martinelli, del CNR, un posto al Pasag uno nella piattaforma SERIT, sponsorizzata da Finmeccanica, uno in un altro volano di fondi e progetti sulla cyber-sicurezza. Nel Pasag siedono dodici membri di Eos su trenta, e a cinque dei suoi membri, sono andati poi altrettanti grossi progetti di ricerca. Ma non è finita qui. Prima c’è il Pasag, che indica la linea, poi ci sono i partenariati pubblico-privato (PPP), una nuova invenzione comunitaria per accelerare il processo di attribuzione di fondi. Si tratta di un altro tavolo dove s’incontrano funzionari della Commissione - che poi scriveranno le leggi da far approvare dal consiglio e dal Parlamento – e gli stessi rappresentanti della lobby della sicurezza che abbiamo trovato nel Pasag. In questo tavolo, il PPP, si parla dei bandi di gara da lanciare al più presto. Luigi Rebuffi, già Ceo della lobby EOS, ha fondato nel giugno di quest’anno, con la Commissione europea, un partenariato-pubblico-privato sulla cyber-sicurezza, l’ECSO. Il vice-Presidente è lo stesso Martinelli del CNR (già membro del Pasag come esperto), che durante la nostra intervista si è definito solo un «facilitatore», uno che fa incontrare gli attori, che «crea un network». Giovanni Soccodato, vice Presidente di Leonardo (ex Finmeccanica) difende a spada tratta i partenariati pubblico-privato: “Sono dei catalizzatori, utili per indirizzare la ricerca verso quei filoni realmente necessari”. Ecso, di cui Leonardo è socio fondatore, ha firmato un “assegno in bianco”, in luglio, una settimana dopo la sua creazione, con la Commissione europea per l’attribuzione di progetti per 450 milioni di euro nel campo della cyber-sicurezza. Certo, le regole per i bandi di gara vengono poi rispettate, le gare sono aperte a tutti in Europa. Ma chi non è seduto a questo club esclusivo dei partenariati pubblico-privato ha qualche chance di aggiudicarsi un progetto di ricerca? Nell’ultimo programma settennale (il 7° Programma quadro) 11 dei 15 maggiori progetti finanziati dall’Europa nel campo della sicurezza sono andati a dei membri della lobby Eos.La grande rete dell’industria
Julien Jeandesboz, ricercatore all’Università libera di Bruxelles, non si fa illusioni: «La Commissione ha bisogno di esperti per legittimare le sue scelte». Quello che «è meno accettabile», dice Jeandesboz è che «l’industria si sia accaparrata del dibattito sulla sicurezza e la Commissione abbia totalmente ignorato le ong e i ricercatori indipendenti». Forse, o piuttosto queste scelte vanno solo al passo dei tempi e dei movimenti populisti che hanno occupato la scena mediatica. Ce lo ha ricordato il deputato europeo Carlos Coelho: «Gli europei vogliono posti di lavoro e sicurezza, siccome non possiamo dar loro il lavoro, gli diamo la sicurezza». Il nostro Paese spenderà quest’anno 4,2 miliardi per l’immigrazione (erano 898 milioni nel 2012), il numero degli arrivi via mare, nonostante le navi della Marina, è aumentato e i morti, quelli che ormai solo le Nazioni Unite contano, sono stati 3.800 fino all’ottobre del 2016 (3700 in tutto il 2015), un record assoluto.
I video pubblicati in esclusiva sul Corriere della Sera sono stati realizzati grazie alla collaborazione di INS Productions, Hugues Wajnsztok e Vice Grecia.
Gli autori sono Crina Boros, Woijec Ciesla, Ingeborg Eliassen, Christophe Garach, Nikolas Leontopoulos, Maria Maggiore, Paulo Pena, Harald Schuman e Elisa Simantke.